Cronaca di un suicidio annunciato
Responsabile dell’omicidio di Luca Varani insieme all’amico Manuel Foffo, Marco Prato si è tolto la vita in cella a un giorno dal processo. La parola a Roberta Bruzzone e Paolo Crepet.
Lo hanno trovato nella sua cella con un sacchetto di plastica intorno alla testa. È morto suicida Marco Prato, che nella notte tra il 4 e il 5 marzo 2016, insieme a Manuel Foffo, trucidò l’amico 23enne Luca Varani. Un festino finito male in uno dei tanti palazzi cresciuti come funghi nel quartiere Collatino, alle porte della Capitale. Inchiodati da confessioni contraddittorie e indagini che fin dalle prime battute avevano delineato una situazione chiara, i due giovani avevano preso strade processuali diverse. Rito abbreviato per Foffo, condannato a 30 anni, procedimento ordinario per Prato. La prima udienza, fissata il 21 giugno. Poche ore prima del suicidio. L’addio, in una lettera in cui il ragazzo spiega le ragioni del gesto: gogna mediatica e menzogne contro di lui.
Abbiamo chiesto un parere a due esperti: la criminologa Roberta Bruzzone, che si è interessata molto della vicenda e ha avuto modo di studiare la documentazione del ragazzo, facendosi un’idea precisa dei suoi meccanismi mentali, e lo psichiatra Paolo Crepet, che invece mette in evidenza un problema di ampia portata, quello sempre più frequente dei suicidi nelle carceri.
«ERA QUESTO L’UNICO FINALE POSSIBILE»
La Bruzzone non ha dubbi, Marco Prato ha scelto un’uscita di scena plateale, studiata, meditata, in cui nulla è stato lasciato al caso. Nessun raptus, insomma. «Ritengo che ci abbia pensato a lungo. Anche solo procurarsi il sacchetto di plastica per un detenuto nella sua condizione non era cosa semplice, quindi credo che sia stata un’azione che ha previsto un tempo non solo di meditazione, ma anche necessario per procurarsi quello che gli serviva». Una morte che per l’esperta è anche una via di fuga. «Si è sottratto a quella che sarebbe stata, realisticamente, un’ulteriore gogna mediatica, probabilmente di portata ben più ampia rispetto a quella già sperimentata, attraverso l’unica strada che gli rimaneva per essere artefice del proprio destino. Lo ha turbato in maniera profondissima ciò che i media dicevano di lui, l’immagine che ne veniva fuori», spiega la criminologa. Che poi aggiunge: «L’unico modo che aveva per sollecitare un senso di colpa a livello mediatico era quello di togliersi la vita, quindi sotto questo punto di vista è anche una vittima. Il tutto, letto nella prospettiva di un soggetto con la sua personalità, era l’unico finale prospettabile».
«IL SUICIDIO RESTI FUORI DAL CARCERE»
Marco Prato era considerato un soggetto ad alto rischio, un detenuto particolare, sottoposto a una sorveglianza mirata, che però alla fine non è stata sufficiente per evitare l’epilogo più drammatico. Su questo aspetto mette l’accento Paolo Crepet, che preferisce «un rispettoso silenzio» davanti alla morte di un ragazzo, seppur autore di un delitto raccapricciante. «Per capire le ragioni di un tale disagio bisognerebbe procedere dall’infanzia al delitto e non dal delitto in poi, chiedersi che cosa gli sia successo, in che modo sia cresciuto», spiega lo psichiatra. La scelta di farla finita in carcere, poi, non è affatto rara (nel 2015, secondo gli ultimi dati di un rapporto diffuso dall’Associazione Antigone sulle carceri, sono stati 43, ndr) e «capita molto più spesso tra i detenuti in attesa di giudizio che negli altri, perché è il momento di maggiore fragilità», precisa Crepet. Che chiude con un pensiero all’altro omicida: «In prigione non dovrebbe esserci spazio per queste tragedie. Dei protagonisti di questa storia orribile ora resta solo Manuel Foffo. Spero che sia ben sorvegliato».
Fonte: Letteradonna