“Finchè morte non ci separi”: come e perchè si muore per “amore”
di Roberta Bruzzone, Psicologa Forense e Criminologa, Presidente Accademia Internazionale di Scienze Forensi (2010)
Contrariamente a quanto ci hanno insegnato le nostre mamme e le nostre nonne, di “amore” si può morire a volte. Certo bisogna incappare in una forma d’amore distruttiva, maligna, in grado di trasfigurare il nostro “oggetto d’amore” al punto da trasformarlo nel nostro peggior nemico giorno dopo giorno. E spesso, troppo spesso, sono proprio le donne a pagarne il prezzo più alto con la loro vita, vittime in primis di un sentimento di possesso che non perdona loro l’aver osato travalicarne gli angusti confini in cerca di una maggiore autonomia. Molte di loro vengono uccise per la semplice ragione che non sono più disposte a garantire la loro pseudo-complicità nei confronti del partner violento pur di conservare la coppia. Principalmente per questa netta prevalenza di vittime al femminile l’omicidio commesso ai danni del partner (o ex partner) viene spesso considerato un omicidio di genere. Cercheremo di entrare nel merito della diffusione in Italia e nel mondo di questi delitti, del profilo di personalità di chi arriva a commetterli e di chi ne subisce la portata letale. Parleremo dei carnefici, delle vittime e del percorso che li ha costretti a confrontarsi con il loro tragico destino di morte. In altre parole cercheremo di comprendere perché quando una donna muore c’è molto, troppo spesso qualcuno che diceva di amarla dietro la sua morte. Tuttavia questa particolare tipologia di omicidi trova da sempre scarsi spazi di attenzione a livello mediatico. Ai protagonisti di questi vicende nella stragrande maggioranza dei casi viene riservata solo una pietà distratta che si risolve in poche frasi di circostanza in cui vittima e carnefice vengono posti sostanzialmente sullo stesso piano.
La violenza sulle donne in Italia ( secondo la ricerca ”Le voci segrete della violenza”, condotta da Swg su un campione di 1.782 casi trattati dall’Osservatorio del Telefono Rosa – www.telefonorosa.it)
Quattro violenze su cinque avvengono all’interno di una relazione sentimentale mentre solo una su 100 a opera di sconosciuti. A subirle sono soprattutto donne tra i 35 e i 44 anni (32%), sposate (50%) con figli (79%), diplomate (53%) e di professione impiegate (21%). Ammettono di patire ricatti, insulti e minacce (44%), violenza fisica, anche con corpi contundenti come martelli o altri oggetti taglienti (26%), economica (13%) e sessuale (7%). Ma vogliono venirne fuori: dal 2008 al 2009 la percentuale delle donne che ha subito violenza per mano del proprio compagno e’ diminuita dal 64 al 55%, mentre sono aumentate le vittime aggredite dagli ex (dal 18% al 25%). Lo rileva la ricerca ”Le voci segrete della violenza”, condotta da Swg su un campione di 1.782 casi trattati dall’Osservatorio del Telefono Rosa e presentata a Roma. Il 61% delle volte la violenza e’ invisibile, si consuma all’interno delle mura domestiche. Anche se il 30% delle donne straniere in Italia afferma di averla subita anche in luoghi pubblici. Solo nel 7% dei casi si tratta di episodi isolati, nel 78% i comportamenti violenti sono invece reiterati, un’abitudine. Il 24% delle persone che si sono rivolte all’associazione Telefono Rosa ne e’ vittima da oltre un anno, il 18% da un periodo tra i 5-10 anni, il 13% da 10-20 anni, mentre l’11% da oltre 20 anni.La meta’ delle violenze subite e denunciate dalle donne nel 2009 rientra nel reato di stalking. Erano il 46% nel 2008. L’aumento fino al 50% (+4% in un anno) e’ stato misurato dalla ricerca ”Le voci segrete della violenza”, presentata oggi a Roma da Swg e dall’Osservatorio del Telefono Rosa. L’associazione ha preso in esame 1.782 casi di violenze nel 2009. Di questi, il 6% riguardava atti persecutori. Ma a subire lo stalking – osserva la presidente dell’associazione Telefono Rosa, Maria Gabriella Carnieri Moscatelli – sono state anche altre donne, vittime di minacce, violenza psicologica, economica o di atti molesti a carattere sessuale. Le molestie rientranti nel reato di stalking sono state il 52% di quelle dichiarate dalle donne italiane e il 45% di quelle denunciate dalle straniere. Chi ha subito atti persecutori e’ stata minacciata (53%; la percentuale sale fino al 57% nel caso delle donne straniere in Italia), insultata verbalmente (22%; 23% nel caso delle italiane), pedinata (14%) e ha ricevuto telefonate continuate e messaggi e lettere non richiesti (15%). Ha inoltre subito appostamenti (15%) e danni ad auto o motorino (6%).
La violenza e l’omicidio all’interno della coppia Sono davvero molti gli studi e le ricerche a livello internazionale che negli ultimi anni si sono occupati di violenza all’interno della coppia. Lo studio condotto da Holmes&Holmes nel 1994 ad esempio afferma come all’interno di circa il 50% delle coppie sposate si sia verificato almeno un episodio di violenza diretta tra i coniugi. Anche Mann (1988) poco sembra discostarsi da tale posizione ed afferma che il 70 % delle violenze subite da donne (compreso lo stupro e l’omicidio) viene commesso dal marito, dal compagno o da parte di un ex. In particolare l’omicidio del partner (o dell’ex partner) è uno dei crimini più drammaticamente diffusi a livello nazionale ed internazionale. In particolare quando parliamo di omicidi di donne, un dato salta agli occhi in maniera decisamente allarmante: dal 35 al 70% (a seconda della localizzazione geografica dei dati raccolti) degli autori di questi omicidi è il partner o l’ex partner della vittima (sia esso marito, convivente, fidanzato presente o passato). Le percentuali più elevate di questo tipo di omicidi le riscontriamo nei paesi di matrice islamica anche se i paesi occidentali certo non sembrano da meno. In America negli ultimi 10 anni circa il 35-40% delle donne assassinate trova la morte per mano del partner attuale o pregresso mentre in Europa le percentuali variano dal 40 al 50%. Secondo la NOW (National Organization of Women) americana ogni giorno negli Stati Uniti 4 donne vengono assassinate dal proprio partner (presente o pregresso) per un totale di circa 1400 l’anno. Le percentuali di altri importanti studi di settore condotti dalle più importanti ed accreditate agenzie americane poco si discostano da questo andamento. Ciò sembra essere drammaticamente in linea con quanto si verifica nel nostro paese. In Italia infatti ogni 3 giorni (in media) una donna viene uccisa per mano di un uomo, il proprio uomo. Secondo i dati della Polizia di Stato infatti nel solo 2008 ben oltre 100 donne sono state brutalmente assassinate da parte del loro compagno.
Ma perché si arriva ad uccidere il proprio partner? Non è certo semplice entrare nel merito delle motivazioni alla base di questa categoria di omicidi. Senza contare che nella maggior parte dei casi giunti all’attenzione della cronaca giudiziaria, sono emersi poi anche tutta una serie di elementi situazionali che hanno grandemente contribuito a complicare ulteriormente la situazione fino ad innescare il proposito omicidiario. Tuttavia questo è un aspetto che torna quasi sempre quando a uccidere è l’uomo nella coppia. E allora esperienze traumatiche come la perdita del lavoro o una crisi di carattere finanziario e/o sociale vengono riversate in maniera disfunzionale (spesso attraverso una serie di comportamenti violenti di crescente potenziale lesivo) all’interno della coppia nel tentativo vano di affrontarle. La coppia o la famiglia in generale diventa così una sorta di “ultima spiaggia” attraverso cui mantenere una sorta di controllo sulla propria esistenza, spesso contrassegnata da un’interminabile sequenza di fallimenti all’esterno delle mura domestiche. Nella stragrande maggioranza dei casi comunque abbiamo a che fare con moventi di matrice “affettiva” (o, più propriamente, pseudo-affettiva) come la gelosia e la possessività, progressivamente sempre più morbosa e pervasiva al punto da far riconoscere ovunque segni tangibili del tradimento da parte del partner (o della sua volontà di troncare la relazione, di abbandonarlo) fino a far maturare nell’assassino la volontà di riscuotere il suo letale tributo di morte. Ma il possesso è un sentimento dalla base piuttosto precaria perché la persona che si ritiene (illusoriamente…) di possedere in realtà conserva sempre il potere di scegliere di smettere di prestarsi al solito grottesco copione. Può infatti decidere di andarsene. O può decidere di appartenere a qualcun altro. O può semplicemente cominciare a decidere in maniera autonoma. E allora la donna viene uccisa per colpa di un amore che l’altro ha irrimediabilmente sciupato proprio attraverso la pretesa di un legame esclusivo ed escludente, perché non è più innamorata del suo carnefice o più semplicemente perchè è cresciuta. La scelta di uccidere in questi casi sembra essere l’unico modo per l’assassino di mantenere l’assoluto controllo sul/la partner. Spesso quando il movente è la gelosia la morte del partner arriva dopo l’ennesima lite violenta. Certo non bisogna in questo elenco dimenticare che tutta una serie di omicidi maturati all’interno della coppia di passionale hanno avuto ben poco ma hanno basato la scelta di uccidere su aspetti decisamente più pragmatici e strumentali come l’ottenimento di un vantaggio economico importante o di un’appetitosa eredità. In altri casi invece il movente dell’assassino attinge copiosamente dalla sua psicopatologia o da certe carenze/vulnerabilità a carico della sua struttura di personalità. Sono questi i casi in cui l’omicida presenta, sovente già da tempo, dei disturbi psichiatrici gravi come un disturbo dell’umore, una grave forma d’ansia o di depressione. In questi casi l’abbandono da parte del partner, reale o presagito che sia, diventa una condizione sufficiente per decidere di uccidere. Spesso anche se stessi dopo il partner. E allora si uccide proprio per l’incapacità di pensarsi da soli ad affrontare un futuro che improvvisamente non si è più sicuri di desiderare senza l’altra/o. In questi casi solitamente si parla di “cortocircuito abbandonico” in grado di fagocitare sia la vittima che il carnefice, vittima a sua volta (e proprio per questo forse ancora più colpevole….) della propria letale fragilità.. È in questo tipo di scenario che si sono consumate alcune tra le storie che hanno insanguinato il nostro paese…e non solo. Del resto il test più attendibile per saggiare la forza della personalità (nostra ed altrui) può essere agilmente riconducibile a come affrontiamo e ci confrontiamo con la perdita nella sua più ampia accezione. Questo rappresenta infatti uno dei parametri cardine della nostra intera esistenza. Ciò che siamo stati, che siamo e che saremo in grado di essere molto dipende da come abbiamo vissuto le nostre esperienze di perdita a partire dal momento in cui abbiamo lasciato il grembo materno. E naturalmente anche il nostro modo di entrare in relazione con l’altro molto dipende in primis da tale aspetto. La dipendenza affettiva così come la sua nemesi, l’anaffettività, la dipendenza da sostanze, dal cibo, dal gioco d’azzardo, dal sesso sembrano attingere a piene mani proprio da un precoce fallimento a carico della nostra capacità di metabolizzare il sentimento di perdita. Bowlby proprio a tal riguardo parlava di “attaccamento ansioso”. Ma questa è un’altra storia.
Quando è la donna ad uccidere il partner Quando una donna arriva ad uccidere il proprio partner o ex partner solitamente alle spalle ha tutta una serie di abusi fisici, psicologici e/o sessuali che ha dovuto subire da parte della vittima per anni a volte, giorno dopo giorno. Si tratta molto spesso di donne che hanno già sperimentato in diverse occasioni molto “tangibilmente” la paura di morire per mano del proprio compagno. Per certi versi possiamo considerare la donna come una sorta di esecutore materiale di un omicidio che in realtà ha “commissionato” giorno dopo giorno proprio la vittima con le sue violenze, con i suoi soprusi siano essi fisici, psicologici, sessuali o un mix letale di tutti quanti. Non a caso in America ormai da anni si discute sulla possibilità che alle donne che arrivano ad uccidere il proprio partner con alle spalle un percorso di abusi e maltrattamenti possa essere concessa l’attenuante della “legittima difesa” dal momento che lo stato di grave pericolo per la propria incolumità sarebbe da considerarsi continuato nel loro caso oltre che sistematico. Nella maggior parte dei casi arrivano ad uccidere durante la notte o nelle primissime ore del mattino dopo l’ennesimo violento litigio quasi a voler approfittare del torpore della vittima (tipico di quelle ore) quale strategico elemento di vantaggio. Questo tipo di omicidi, quando è la donna a rivestire i panni dell’assassina, avvengono solitamente nella camera da letto o nel salotto di casa. Naturalmente solo una minima parte delle donne che vivono una condizione di abuso sistematico da parte del proprio compagno arrivano a maturare la decisione di liberarsi di quest’ultimo attraverso l’omicidio.
La storia di Rosanita Rosanita Nery dos Santos, 52 anni, del marito proprio non ne poteva più. Non ne poteva più delle sue violenze, delle sue continue umiliazioni. La sua intera esistenza era stata costellata dalla violenza e dalla povertà e per Rosanita era tutta colpa del suo uomo. Era lui che aveva assassinato la sua anima tradendo tutte le sue aspettative più legittime. Lei con lui aveva condiviso tutto, sempre. Nel bene ma soprattutto nel male. E di male lui gliene aveva fatto davvero tanto. I segni delle sue continue percosse avevano reso più sgranati persino i confini del suo volto oltre che della sua mente. Così il 23 giugno del 2005 ha deciso che per lei era abbastanza e lo ha drogato per poi accoltellarlo nel sonno. Ma non basta a Rosanita. Lei non vuole pagare per quella morte. Ha già pagato abbastanza in tutti quegli anni da incubo passati accanto a lui. È principalmente questa la ragione che la spinge a scegliere una modalità davvero agghiacciante per disfarsi del cadavere. Dopo averlo assassinato infatti Rosanita lo ha fatto a pezzi, più di cento, ne ha fritto i vari pezzi e poi li ha riposti all’interno di alcuni sacchi della spazzatura che ha nascosto nel sottoscala della loro abitazione a Vila Sao Cosme, una baraccopoli di Salvador di Bahia, in Brasile. Racconta un portavoce della polizia locale: “Il 23 giugno 2005, Rosanita Nery dos Santos ha drogato il marito e poi lo ha ucciso nel sonno a colpi di coltello, lo ha tagliato in più di cento pezzi, li ha bolliti e fritti, per poi nasconderli in sacchi di plastica sotto le scale di casa”. La polizia ha ritrovato i resti del cadavere dopo aver ricevuto una telefonata anonima. L’ennesimo scherzo beffardo del destino per Rosanita. Ma nessuno sembra comprendere la reale natura della sua scelta. C’è chi parla di un rito di magia nera, della speranza di assicurarsi il premio dell’assicurazione sulla vita del marito come se il desiderio di vendicarsi per le continue umiliazioni subite nel corso degli anni non fosse di per sé un movente più che sufficiente per quella morte. Lei però tenta di difendersi come può negando ogni addebito. E lo fa creando una pista alternativa, estranea al malessere profondo ed insanabile che lei nutriva nei confronti del marito. Lei sostiene infatti che degli uomini incappucciati siano entrati a forza dentro la loro abitazione e abbiano ucciso suo marito costringendola poi a farlo a pezzi e a friggerlo per evitare che i vicini avvertissero di lì a poco l’odore del corpo in decomposizione. La pista del terzo estraneo, per quanto inverosimile possa di fatto sembrare, del resto non è patrimonio esclusivo del nostro Paese….comunque gli inquirenti non hanno dubbi sulla responsabilità per quella morte e Rosanita viene condannata a 19 anni di carcere.
Quando è l’uomo ad uccidere la partner
Gli uomini che uccidono sono generalmente uomini avvezzi a commettere atti violenti all’interno della coppia. Spesso questo genere di uomini si comporta in maniera violenta nei confronti della compagna come valvola di sfogo di tutta una serie di possibili eventi stressanti che lui sperimenta nella sua vita all’esterno della coppia. E allora un ottimo pretesto per comportarsi in maniera violenta ed abusante può essere un problema sul lavoro, una crisi finanziaria o sociale o non aver trovato posto allo stadio per la partita della squadra del cuore. In sostanza sembra trattarsi nella maggior parte dei casi di uomini che hanno letteralmente perso il controllo sugli aspetti della loro vita esterna alla coppia. Per questi uomini il controllo totale della propria compagna rappresenta spesso l’ultimo baluardo nella loro misera esistenza per conservare un briciolo di autostima. È per questo che l’abbandono da parte di quest’ultima, reale o minacciato che sia, viene considerato semplicemente inaccettabile per questi uomini a cui non resta nulla a parte lo spietato controllo nei confronti della loro vittima prescelta. E allora uccidono perché non riescono ad abdicare dal ruolo di dominatori incontrastati della vita dell’altra, spesso disprezzata proprio per la passività che essi stessi hanno generato dopo anni di continue umiliazioni e percosse.
La storia di Mauro
Quella di Mauro è stata una strage lucidamente pianificata in ogni dettaglio, fino allo spasimo. I suoi “appunti per la festa”. Così infatti Mauro Antonello, 40 anni, aveva chiamato le sue annotazioni sul blocco note trovato all’interno del camper dopo il massacro. Era stato tutto debitamente sequenziato dal killer. Ogni orario, ogni azione da mettere in campo, tutto previsto e debitamente messo in conto. Qualcuno ha parlato del delirio di una mente afflitta da paranoia conclamata. Ma qui c’è di più, c’è molto di più. Siamo A Chieri, ridente cittadina della cintura torinese. È il 15 ottobre del 2002. E c’è un uomo armato d’odio e pallottole appostato da giorni all’interno di un camper fuori dalla villetta della sua ex moglie, Carla. Da giorni Mauro spia tutti i movimenti della ex moglie, della figlia di 7 anni e della famiglia di lei. Carla ha due grandi colpe agli occhi di Mauro. In primo luogo quella di averlo lasciato. In secondo luogo quella di aver convinto i giudici a farle vedere la bambina, la sua bambina, solo per qualche ora a settimana. E Mauro Antonello non è certo uno che ci si può permettere di trattare in quel modo. Lui delle “elemosine” del giudice non sa proprio che farsene. Ma è Carla l’unica responsabile secondo lui. È lei che gli ha rovinato la vita. Non sembra dare molta importanza Mauro agli anni da incubo che ha fatto passare a Carla. Di tutte le volte che le ha fatto del male, che l’ha umiliata. Una vita costellata dai fallimenti. A 40 anni, carpentiere edile, era già disoccupato da due anni perché diceva che il cemento gli aveva rovinato le mani. A lui non restavano nient’altro che Carla e la bambina oltre alla sua grande passione per le armi. Ma lei aveva saputo dire basta. Lei aveva saputo ricominciare senza di lui. E questo lui proprio non aveva intenzione di perdonarglielo. La mattina del 15 ottobre lui aveva ben chiari gli orari di Carla, della bimba e dei famigliari della ex moglie. Ha aspettato che la figlia uscisse dalla villetta per andare a scuola e poi si è diretto verso le sue vittime con addosso una mitraglietta, due pistole semiautomatiche e un revolver. La prima a morire è stata proprio Carla, poi è toccato alla ex suocera, all’ex cognato e a sua moglie, a due vicini di casa “colpevoli” di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato proprio nel bel mezzo della sua “linea di fuoco” e ad un’operaia dipendente del laboratorio tessile dell’ex cognato. L’ultimo colpo l’ha esploso contro se stesso. Anche questo era stato debitamente pianificato. All’interno della sua abitazione di Chieri sono stati trovati circa una decina di bigliettini rivolti ad amici (pochi) e parenti e una sorta di video-testamento lasciato alla figlia. “Volevo riunire la famiglia e lei non ne voleva sapere, tutti erano contro di me”, questo in sintesi il messaggio fondamentale lasciato da Mauro Antonello a spiegazione del massacro.
Il percorso della violenza: come e perchè l’amore diventa criminale
Secondo Holmes&Holmes all’interno di queste coppie disfunzionali la violenza sembra seguire una sorta di copione le cui fasi possono essere così riassunte: - la fase della minaccia. In questa fase l’uomo comincia a minacciare tutta una serie di atti violenti tentando così di rafforzare il suo dominio ed il suo controllo sulla compagna; - la fase della violenza. In questa fase la violenza viene agita direttamente sulla partner sia sotto il profilo fisico che psicologico e sessuale; - la fase delle scuse/giustificazioni. In questa fase l’uomo manifesta tutto il suo pentimento alla partner per quanto commesso durante la fase precedente arrivando ogni volta a promettere che non accadrà mai più una cosa simile e disattendendo sistematicamente quanto assicurato alla compagna che continua drammaticamente a perdonarlo volta dopo volta anche se teme di venire ferita gravemente o persino uccisa durante la prossima aggressione. Non è sempre così semplice o possibile scegliere di andarsene ed abbandonare la propria abitazione oltre all’orco che la occupa. E l’intensa paura che questo genere di scenari è in grado di generare nelle vittime non è certo una buona alleata. Ecco perché tante, troppe donne che vivono in questo orrore quotidianamente scelgono di non fare niente e accettare passivamente gli abusi del partner, il nemico conosciuto.
Highlight n.1 I segni premonitori di una relazione di coppia che può degenerare in tragedia:
– numero e serietà/gravità delle ferite inferte alla partner femminile
– abuso sistematico e continuato nel tempo di sostanze stupefacenti e/o alcol da parte dell’uomo
– condizione sistematica di abuso fisico e sessuale subita dalla donna
– minaccia e/o tentativi di suicidio da parte della donna - presenza crescente di minacce di omicidio da parte dell’uomo
– stalking (presente in circa il 50% dei casi che sfociano nell’omicidio della partner)
Highlight n.2 Il profilo dell’autore di un delitto passionale ai danni del partner
In base ai più importanti studi condotti nell’ambito degli omicidi commessi all’interno della coppia, l’autore sembra avere nella maggior parte dei casi le seguenti caratteristiche:
– solitamente rientra nella fascia d’età tra i 35 e i 40 anni - nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di un uomo
– nella maggior parte dei casi l’assassino convive ancora con la vittima all’epoca dell’omicidio (anche se in una percentuale significativa dei casi è già in essere una separazione di fatto tra i due anche se continuano ad abitare sotto lo stesso tetto)
– si tratta di uomini che tendono a diventare violenti (sia verbalmente che fisicamente) quando sentono minacciato il loro potere sulla partner-vittima e/o quando quest’ultima comincia a manifestare un crescente bisogno di indipendenza ed autonomia - ha un passato di violenze all’interno della coppia (comportamenti violenti che riguardano anche relazioni precedenti oltre a quella attuale)
– tende a sviluppare una forte dipendenza emotiva nei confronti della partner e confonde tale vissuto con una forma d’amore “incondizionato” verso quest’ultima - in molti casi sembra trattarsi di soggetti con un disturbo borderline di personalità contrassegnato da ambivalenza affettiva, rabbia esplosiva, tendenza alla manipolazione e alla labilità affettiva, inaffidabilità, dipendenza da sesso e/o da sostanze stupefacenti/alcool, profonda insicurezza ed immaturità, inadeguatezza relazionale, ridotta autostima e scarsa tolleranza nei confronti della frustrazione, scarso role-playing, autodistruttività - per questo genere di soggetti l’aumento dell’autostima molto dipende dal progressivo annullamento dell’autostima della loro vittima/partner che quindi tende ad indebolirsi dal punto di vista psicologico giorno dopo giorno alimentando così il legame perverso con il proprio carnefice fino al momento in cui non sarà più possibile scindere l’amore dal più profondo disprezzo
– per quanto riguarda l’orientamento sessuale dell’autore di questo genere di delitti, si ha una netta prevalenza di eterosessuali
– il livello socio-economico è tendenzialmente medio-basso così come la sfera occupazionale
– in molti casi l’autore di un omicidio passionale ha alle spalle una famiglia d’origine problematica/disfunzionale caratterizzata dalla separazione dei genitori, da alcolismo di uno o entrambi i genitori o da una situazione economica precaria.
– Nella stragrande maggioranza dei casi tende ad agire da solo.
Alcune considerazioni conclusive
Ma davvero si può arrivare ad uccidere “per amore”? In tutta onestà io non credo. O meglio, si può arrivare ad uccidere per amore, sì, ma per amore di se stessi. Un perverso, dannoso, sbagliato amore per se stessi che trasforma ogni frustrazione in un’onta terribile da lavare con la violenza. Un amore che riduce l’altro/a ad un mero “oggetto” da esibire per dimostrare a noi stessi e agli altri che valiamo pur qualcosa alla guisa di un abito firmato, un bel paio di scarpe o un orologio di marca. Questo tipo di “amore”, fragile ed assolutamente autoreferenziato, credo sia in grado di uccidere. Ma torniamo ai delitti che abbiamo raccontato attraverso queste pagine. Tentare di analizzare la dinamica che ha condotto una persona a commettere un omicidio ai danni del proprio partner pone delle difficoltà di fondo difficilmente bypassabili in primo luogo proprio per il tipo di legame tra vittima e carnefice. Si tratta infatti di persone che “dovrebbero” amarsi ma purtroppo “qualcosa” non ha funzionato. E questo “qualcosa” a un certo punto ha generato una grande confusione all’interno di questo legame, trasformando l’amore in odio verso se stessi (in primis) e verso l’altro/a. Giungere a delineare le reali motivazioni alla base di tale gesto estremo, spesso l’unica incursione criminale nella vita dell’assassino sino a quel momento, infatti non ha solamente a che fare con il contesto culturale, morale e sociale “respirato” quotidianamente dai protagonisti. Spesso c’è un’altra dimensione a cui occorre giungere per arrivare a comprendere. Sotto l’etichetta di “delitto passionale o affettivo” si nascondono infatti i peggiori demoni di chi arriva a commettere questi atti, una sorta di affettività “maligna” e possessiva che distorce l’importanza e la visione dell’altro agli occhi dell’assassino riducendo il legame ad una simbiosi asfittica ed irrealizzabile. Non amore dunque ma un cocktail letale di fragilità, immaturità e dipendenza alla base di questi omicidi perché non esiste amore, degno di tale nome, che affermi il proprio diritto ad esistere attraverso la violenza, l’umiliazione e la costrizione. Forse è giunto il momento di cominciare a chiamare le cose con il loro nome.