Chi ha ucciso Erika Preti?
L’unico indagato è il fidanzato Dimitri. La criminologa Roberta Bruzzone commenta l’uccisione della ragazza durante una vacanza in Sardegna e analizza i segnali d’allarme nella coppia.
Rimane l’unico indagato per omicidio Dimitri Fricano, ricoverato presso il reparto psichiatrico dell’ospedale di Olbia. L’11 giugno 2017, la sua fidanzata Erika Preti, 28 anni, è stata uccisa. I due, insieme da 10 anni, erano in vacanza da alcuni giorni a San Teodoro, in Sardegna, e si stavano preparando per una gita al mare quando, secondo il racconto del ragazzo, uno sconosciuto si è introdotto nella villetta, lo ha tramortito con una pietra e ha ucciso poi la ragazza con due coltellate alla gola. Le indagini del Ris sembrano smentire il suo racconto ma Dimitri continua a sostenere la sua versione dei fatti.
«È innocente – ha detto l’amica Donatella collegata con Pomeriggio Cinque – erano troppo innamorati, non le avrebbe mai fatto del male, io gli credo». Sempre durante la trasmissione di Barbara D’Urso, il suo compagno Alberto ha confermato che «Dimitri viveva per Erika» e che a ucciderla sarà stato «un pazzo, un folle, un maniaco». «Una coppia normale, sereni e tranquilli», ha confermato la proprietaria di una gastronomia che li ha ospitati a cena la sera prima. «Anche noi crediamo e abbiamo fiducia in lui» ha concluso la D’Urso, dopo aver ipotizzato altri scenari e sottolineato che Dimitri era un collezionista di rasoi da tanti anni, cosa che, secondo lei, non deporrebbe a suo favore, ma non ha spiegato perché.
Collezionista o meno, il pubblico in studio e a casa si sarà detto: «Vuoi che gli amici non sappiano come stavano le cose?». Giorno dopo giorno ci stiamo illudendo che un mostro in circolazione abbia ferito Dimitri, massacrato Erika, e si sia volatilizzato prima di colpire ancora chissà dove. Il mostro è l’uomo cattivo che arriva da lontano, destabilizza il nostro quieto vivere e si eclissa. Il mostro ci piace, ci conforta, ci tranquillizza. È un un pazzo, un folle, un maniaco, appunto. Il mostro non ci assomiglia, il mostro non ci chiede di riflettere su di noi e le nostre emozioni, su sentimenti, fragilità e paure. Ne ho parlato per LetteraDonna con la criminologa Roberta Bruzzone che da subito ha escluso la tesi della rapina.
«ECCO PERCHÉ NON VOGLIAMO UNIRE I PUNTINI»
«Quel mostro non c’è – dice Bruzzone – bisogna fare i conti con la prospettiva ben più realistica e frequente che il mostro lo conosciamo bene, che non sembra un mostro, non si comporta da mostro e spesso ha le nostre chiavi di casa. Occupandomi da 20 anni di femminicidio, violenza sessuale e stalking, so perfettamente che la sfera dei soggetti più vicini alla vittima è quella che normalmente ci restituisce l’autore del crimine». Mi spiega che normalmente anche i familiari delle vittime davanti a un quadro indiziario abbastanza solido e univoco fanno inizialmente fatica ad ammettere l’evidenza, così come gli amici più stretti: «C’è una resistenza notevole a entrare nell’ottica che il mostro ha il volto e la voce di una persona che conoscono, o pensano di conoscere, con cui hanno condiviso tanti momenti e tempo. È una sorta di protezione verso se stessi. Ammettere di non aver capito, di essersi sbagliati così radicalmente nelle valutazioni costa moltissimo a livello emotivo. Solo quando il quadro complessivo risulta evidente ed emerge che il sospettato mente, a volte si scopre che ha una doppia o tripla vita, solo in quel momento il pregiudizio benevolo iniziale deflagra e tutti i puntini vengono uniti».
UN RACCONTO «INVEROSIMILE»
Mi dice che durante le indagini a volte anche tra professionisti prevale la speranza di trovare una persona esterna all’ambito relazionale della vittima ma la casistica insegna che partire da questo presupposto è sbagliato. Quando le chiedo come può un uomo continuare a mentire con tanta freddezza dopo aver commesso un crimine così atroce mi spiega che «un soggetto di questo tipo, fortemente narcisista, rimane lucido perché pensa di essere dalla parte della ragione, si è assolto da solo, il senso di colpa non lo disturba. Agisce in uno scenario emotivo che ritiene accettabile, non vuole pagare le conseguenze per quello che ha fatto, difendersi diventa la ragione di vita». Per Roberta Bruzzone, sulla scena del crimine c’erano solo Erika e Dimitri: «C’è poco da discutere in questo caso, tracce di aggressori esterni non ce ne sono, Dimitri avrebbe rappresentato la minaccia principale per il presunto aggressore ed è stato risparmiato mentre Erika è stata brutalmente assassinata. In più, non manca niente dall’abitazione: il racconto di Dimitri appare inverosimile». Ma se non c’è nessun mostro e Dimitri è colpevole la domanda che sorge in tutti noi è come accorgersi che una figlia, un’amica o una sorella si trova in una situazione pericolosa.
QUALI SONO I SEGNALI?
«Sappiamo poco di questa coppia – continua la criminologa- che progetti condivideva, se era proiettata in un futuro insieme o no. Se c’era qualcosa che la stava fortemente inquietando in qualche ambito della vita di relazione particolarmente difficile da accettare per lui. Quello che sappiamo è che la coppia perfetta non esiste e dall’esterno non possiamo sapere
dei rancori sopiti, delle crisi o di situazioni che possono esplodere in maniera molto rapida. A volte, sono quasi una sorta di segreto che la coppia non lascia trapelare anche alle persone più vicine. Ci sono in tanti casi in cui la donna vuole far apparire tutto perfetto perché si vergogna e non vuole far emergere il lato di lui che conosce ma che vuole nascondere agli altri. Spesso sono coppie non molto aperte al mondo esterno». Ma se invece ci raccontassimo le cose, i segnali sono sempre gli stessi, inequivocabili come conferma anche la criminologa, e hanno a che fare con l’esercizio di potere: «Il segnale è il controllo, quasi una sorveglianza che vuole avere accesso a tutte le aree di frequentazione della vittima, sia nel mondo reale che virtuale. I soggetti che lo esercitano, quando gli viene inibito l’accesso ai social media o al cellulare, tirano fuori un aspetto di violenza non necessariamente fisica ma psicologica in cui subentrano ricatti emotivi, sollecitazioni di sensi di colpa, meccanismi volti a suscitare angoscia nella vittima. Le tecniche sono tante, ma se non si raccontano amici e familiari non hanno strumenti per capire quello che realmente accade».
COME SI COSTRUISCE UN MOSTRO
L’idea del mostro che non ci assomiglia non ci induce a chiederci che cosa c’è dietro una coppia affiatata, magari la nostra. Dimitri ed Erika nelle foto dei profili Facebook sono tutto un sorrisi, baci e tenerezze. Anzi, a dire il vero è lei che sorride. Erika sorride sempre e con quel suo sorriso aperto viene descritta come il ritratto della felicità. Nel 2016 si parlò del ritratto della felicità anche per Gisella Nano e Carlo Revetria. Dopo quel caso, un vicino disse che Carlo l’aveva uccisa«perché l’amava troppo e voleva stare con Gisella anche in un’altra vita». Perché Carlo aveva un tumore dal decorso tragico e l’idea che avesse ucciso la moglie per averla accanto nell’aldilà a qualcuno può persino sembrare romantico. Il marito ideale o il fidanzato romantico, dopo un femminicidio, rimangono tali. Come il bravo ragazzo dopo uno stupro e, in quel caso, il mostro lo costruiamo comunque e consiste nella tentazione di una lei disponibile e complice. Quando cade l’alibi del mostro venuto da un altro pianeta, ecco che ci aggrappiamo al raptus, qualcosa che rimette i panni del mostro all’omicida, gli toglie la responsabilità dell’azione, ce lo restituisce in qualche modo pulito, limpido, come ci piaceva prima.
PAZZO PER UN ISTANTE
Pazzo per un istante, e poi di nuovo lui, da commiserare. Un’armatura di crudeltà indossata per una funesta fatalità. Poi siamo pronti per le interviste, i Quanto si amavano, Erano una coppia stupenda. E intanto una lei è morta. Come è morta Erika, come è morta Diana a Busto Arsizio, come moriranno altre domani perché c’è qualcuno che si impegna tutti i giorni per tenere in vita il mostro, irrobustirlo, nutrirlo. Lo fa soprattutto un gruppo di uomini. Si fanno chiamare attivisti per i diritti dei maschi. Come se ne avessero pochi, in questa società in cui il patriarcato dei suoi diritti – che se non condivisi diventano privilegi – ne conserva ancora troppi. Come se non fosse una donna ogni tre giorni a morire. Certo, esistono le donne stronze, cattive, prepotenti. Ma gli uomini non muoiono, i numeri non si discutono, basta parlare con i carabinieri. Non ci sono cadaveri di maschi nascosti nelle cantine o sepolti in giardino. Quando qualcuno muore in questo paese lo veniamo a sapere. Siamo infatti venuti a sapere che il 22 giugno un uomo è stato ucciso a Genova dalla fidanzata. Uno. Appunto. Ad oggi i femminicidio nel 2017 sono 42. I numeri sono questi dunque: 1 e 42. Il 2,4% contro il 97,6%.
CHI NUTRE IL MOSTRO?
I negazionisti negano, appunto, a prescindere. Negano che esista una questione di genere, affermano che tutti subiamo violenza, maschi e femmine indistintamente: per loro 1 vale 42. Li ritroviamo poveri nei contenuti, oltre che nell’umano. Sono sotto gli occhi di tutti gli ostacoli che ogni donna si trova di fronte nella vita, a parità di condizioni, per realizzare se stessa e i propri desideri, nel privato come nella professione. Ma i negazionisti – e le negazioniste al seguito, perché il patriarcato coltiva le sue ancelle – si adoperano nel tentativo disperato di sovvertire le parti, di proporsi come vittime di un femminile manipolatore e senza scrupoli, mentre le statistiche, e i dati inconfutabili ci testimoniano quanto sia irresponsabile mistificarli e la matematica ci dica che 42 è 42 volte maggiore di 1. Affollano i social di commenti che sono il copia incolla l’uno dell’altro, definiscono il femminismo come una forza integralista quando è proprio il femminismo che apre alla condivisione e alla libertà dell’individuo, di tutti gli individui. I negazionisti sono una minoranza ma fanno rumore. Un rumore che per chi si occupa di violenza è un fastidioso sottofondo mentre dal punto di vista simbolico rappresenta il muro che una società intera si trova di fronte quando incontra la violenza. Rappresenta l’unica difesa possibile per chi non riesce a riconoscere su di sé un sessismo radicato nell’ombelico e che di fronte alla possibilità di un cambiamento si sente destabilizzato.
IN DIFESA
Al di fuori degli integralismi ci sono infatti tanti uomini che stanno sulle difensive con modalità quasi infantili: «A parlare sempre di femminicidio, ci crocifiggete tutti», dicono, con tanto di donne al seguito, perché c’è chi ancora fa confusione e pensa che se ami gli uomini non sei femminista e viceversa. Altri si limitano a ribadire «Con quei mostri non c’entro» e parlano di follia per sentirsi al riparo, migliori, e pronti a cambiare pagina e notizia. È una difesa comprensibile ma con cui sarebbe ora di fare i conti perché le cose cambiano solo se acquisiamo la consapevolezza di possedere un potere, che esercitiamo attraverso ogni scelta, personale e quotidiana, per cambiare le cose.
Ma se è sempre un Dimitri ad uccidere una Erika, se è sempre un Carlo ad uccidere una Gisella, un Muhamed a uccidere una Diana. Non dovrebbero essere propri gli uomini a volersi dissociare dagli assassini e da tutti i violenti e volersi proporre con una modalità diversa di stare al mondo e di vivere una relazione? Se i numeri sono 1 contro 42, cioè se sono uomini gli attori della violenza, non dovrebbero essere loro i primi a volerne parlare? Non dovrebbe essere proprio la parte migliore di ogni categoria a volersi dissociare dalle mele marce? E non sarebbe ora di svincolarsi dal binario della categoria e confrontarsi tra persone senza temere le reciproche differenze?
TUTTI FEMMINISTI
La violenza sulle donne non è affar di donne, diventa un problema femminile perché quello maschile rimane irrisolto. Rimane muto, come la fragilità che lo circonda. Tutti dovremmo definirci femministi, poiché femminismo non significa contro ma significa con ed è questo con che avvicina gli esseri umani e li rende capaci di relazioni costruttive anziché distruttive, fondamenta per una società più felice per tutti dove le difficoltà si affrontano con la consapevolezza e il coraggio per superarle. In cui ogni Dimitri che cova rabbia e violenza dietro una maschera di dolcezza possa essere riconosciuto, aiutato, anticipato. In cui ogni Erika possa riconoscere, decodificare, scegliere, vivere. E di questa libertà vorrei sentir parlare – anche- nel salotto di Barbara d’Urso.
Fonte: Letteradonna